Etnobotanica: i popolari usi curativi delle erbe

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francescofree
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Etnobotanica: i popolari usi curativi delle erbe

Messaggio da francescofree » mer lug 22, 2009 12:09 pm

L'etnobotanica costituisce una base fondamentale per muovere i primi passi finalizzati alla ricerca scientifica sulle proprietà terapeutiche delle piante: una volta conosciuti gli usi popolari, spetta poi al rigore metodologico della scienza validarne l'efficacia per i medesimi. Spesso, poi, càpita che molti di più siano gli effetti che una pianta dà dopo che ne sia stata indagata la composizione dei princìpi attivi. Ma molto c'è da dire; a tal proposito mi è grato segnalarvi il testo di etnobotanica, che da poco è stato pubblicato:

"IL GIARDINO DEI DUE MONDI
- Un viaggio nell'esperienza erboristica della Mesoamerica e dell'Italia"

° Aracne Ed.;
° 344 pagine, di cui oltre la metà a colori;
° circa 600 piante analizzate: nome comune, nome botanico, etnofarmacologia, clinica;
° Presentazione a cura del Prof. G.G. Franchi (docente di Etnobotanica e di Botanica farmaceutica della Facoltà di Farmacia, Università di Siena);
° Per info e acquisto: aracneeditrice.it: andare su "catalogo", e poi su "ricerca" immettere titolo (anche parziale); vi compariranno anche il sommario, copertina e 20 pagine visualizzabili.

Descrizione:
il testo presenta un’analisi di tipo etnobotanico alla descrizione della fitoterapia odierna e passata dell’America centrale — con particolare riferimento allo Stato del Messico — e parallelamente dell’Italia.
Un tale approccio, propriamente detto “etnofarmacologia”, supera la semplice narrazione dell’arte curativa delle piante officinali o la schematica compilazione delle loro virtù, poiché si dà anche il compito di giustificarne le motivazioni degli usi tradizionali.
Trattare di etnobotanica implica, infatti, non poter prescindere dall’indissolubile vincolo che unisce l’impiego del mondo vegetale da parte dell’uomo a quello dei fenomeni culturali propri dell’uomo stesso, quali la religione, la filosofia, il sociale, la mitologia: un insieme che gli amerindi in persona amano chiamare “cosmovisione”, la concezione, cioè, dell’individuo e del Mondo in cui egli è inserito come parte integrante.
La prima sezione del testo tratta specificamente di tale retroterra folkloristico, esplorato con un’indagine antropologica condotta sugli antichi popoli dei Nahua, come pure di Maya ed Aztechi, e dei loro attuali discendenti in Mesoamerica. Successivamente sono descritte le indicazioni di circa 600 vegetali curativi. Alcune di queste erbe medicinali sono utilizzate in Messico, certe anche in Italia, mentre, insieme ad altre, molte sono scientificamente comprovate: tale ulteriore aggiunta ha lo scopo di validarne gli eventuali impieghi tradizionali. Offrire una sinossi con l’esperienza erboristica popolare italiana mette in evidenza come spesso la stessa pianta tradizionalmente consigliata abbia scopi differenti.
Nell’ultima parte è presentato il percorso inverso: a partire da un disturbo, si arriva a conoscere quali piante, oltre a quelle clinicamente attestate, si utilizzano popolarmente nei due Paesi per contrastarlo. Essa è inoltre corredata di numerose schede monografiche su caratteri singolari di alcune piante medicinali e su elementi culturali che di molte erbe motivano l’uso suggerito dalla tradizione.


Alcune Schede monografiche:
su Elementi culturali mesoamericani di etnomedicina:
° Susto/Espanto
° Mal aire
° Empacho
° polarità frìo-caliente
° piante allucinogene-enteogene;
su Piante mesoamericane, quali:
° Zapote blanco (Casimiroa edulis)
° Tepescohuite (Mimosa tenuiflora)
° Ololiuhqui (Turbina corymbosa)
° Peyote (Lophophora williamsii)
° Epazote (Chenopodium ambrosioides/anthelminticum)
° Toloache (Datura sp.)
° Chiuapatli (Montanoa tomentosa)

Presentazione:
Ancora un libro sulle piante medicinali?
No; non direi proprio che questo testo del dottor Francesco Di Ludovico, Il Giardino dei Due Mondi — Un viaggio nell’esperienza erboristica della Mesoamerica e dell’Italia, possa essere incluso e confuso fra i tanti, francamente troppi, volumi a carattere elencativo dedicati alle piante medicinali e pubblicati negli ultimi anni.
Questo libro, infatti, si differenzia non solo per la competenza che l’Autore, medico chirurgo, ci dimostra, ben consapevole della natura dei principi attivi presenti nelle piante, dei loro meccanismi d’azione farmacologica e delle loro possibili interazioni, controindicazioni e talora tossicità. La principale sua caratteristica consiste infatti nella diversità dell’approccio scelto per la trattazione dell’argomento, approccio che questa volta è di tipo etnobotanico.
Vale forse la pena di ricordare che l’Etnobotanica è una scienza relativamente recente. Il suo stesso nome, etnobotanica, fu inventato ed utilizzato per la prima volta solo nel 1895 dallo statunitense John William Harshberger (Filadelfia, 01.01.1869 — 27.04.1929), che fu professore di Botanica nell’Università della sua città e presidente della Società Botanica della Pennsylvania. Harshberger definì l’Etnobotanica, in inglese Ethnobotany, come “the use of plants by aboriginal peoples”, cioè l’uso delle piante da parte delle popolazioni originarie od autoctone di una certa zona. Questo concetto prescinde dal livello di civilizzazione della popolazione presa in considerazione, che quindi non è assolutamente necessario che sia “primitiva”: quello che conta è invece la continuità della permanenza in un certo territorio, con la conseguente acquisizione di una “tradizione”, e cioè di un’esperienza di “convivenza” con le varie entità viventi (piante comprese) presenti nell’area e finalmente l’instaurarsi di rapporti di possibile sfruttamento / utilizzazione. Il concetto di Etnobotanica, inoltre, non è da limitarsi all’utilizzo delle piante nel campo terapeutico, il che dovrebbe più propriamente dirsi “etnofarmacologia”, ma comprende lo studio di una ben più vasta gamma di rapporti uomo–pianta: dallo sfruttamento in campo agricolo–alimentare, all’utilizzo delle piante nella produzione artigianale di oggetti di uso comune e come materiale da costruzione, ai criteri di gestione di terreni, boschi e più in generale dei popolamenti naturali, fino ad una vasta gamma di rapporti antropologico–culturali che arrivano a sfociare nel magico o nel religioso.
Un’Etnobotanica moderna, oggi assurta a disciplina di studio e di insegnamento universitario, è tutto questo, ma non solo. Molti si vorrebbero limitare alla sola registrazione elencativa di fatti, di usi, di tradizioni, ma non è suffi-ciente. Certo, questi elenchi sono necessari. E vanno fatti con grande urgenza, come la ricerca scientifica degli ultimi decenni ci dimostra, prima che la memoria vada perduta. Sono infatti molte le popolazioni in cui si assiste al fenomeno dell’inurbamento. Interi villaggi si spopolano e le famiglie si trasferiscono nelle città, alla ricerca di un lavoro meno faticoso e più redditizio, e di condizioni di vita che, spesso a torto, vengono considerate “migliori” o semplicemente “moderne”. È quanto è successo in Italia a partire dagli anni sessanta dello scorso secolo, ma è quanto sta succedendo oggi in tante nazioni di quelli che chiamiamo il Terzo ed il Quarto Mondo. E l’esperienza ci insegna che quando queste persone si ritrovano, spaesate, spersonalizzate, a vivere come numeri nei quartieri dormitorio delle grandi città ed a lavorare in condizioni di sfruttamento spesso inumano, rapidamente dimenticano, in pochi anni, al massimo in una generazione, gli usi e le tradizioni, sviluppatisi in secoli, che così rischiano di an-dare irrimediabilmente perduti. Mentre questo accade, le campagne o rimangono spopolate, o vengono “invase” da altre genti, spesso migranti da paesi ancor più poveri, che trovandosi in ambienti diversi pure perdono, perché non più applicabili, gran parte delle loro tradizioni, oppure vengono “ricolonizzate” da chi è in fuga questa volta dalle città, dalla vita concitata e dallo stress, alla ricerca di un ambiente più naturale, più pulito, dell’“aria buona”: ma anche in quest’ultimo caso non c’è di solito alcuna continuità familiare fra questi nuovi abitanti e quelli inurbati anche pochi anni prima, né, ovviamente, alcuna tradizione vera, e non letta sui libri, da poter perpetuare o riprendere.
Così l’Etnobotanica non è e non deve essere solo un insieme di record da affidare alla storia prima che se ne perda la memoria, ma è scienza che di tutti questi usi e tradizioni deve oltre che registrare i fatti capire i perché. Non è facile. Anche limitandosi alle piante utilizzate in ambito terapeutico, è chiaro che non c’è in queste genti alcuna idea né di principio attivo né di farmacologia e meccanismi d’azione. Spesso manca anche un concetto di malattia nel senso scientifico del termine. Ma rimane l’uso delle piante, talora inutile per non dire erroneo o contro-producente, ma molto spesso assolutamente corretto alla luce di successive indagini scientifiche. Cosa c’è dietro l’uso di una certa pianta piuttosto che di un’altra? Non è facile rispondere. Molti vorrebbero spiegare tutto con l’esperienza acquisita, dopo tanti tentativi falliti, di una pianta finalmente efficace, ma è una spiegazione semplicistica. Talora c’è anche questo, ma raramente. Più spesso ci sono altre cose: l’osservazione di come si curano alcuni animali, o l’interpretazione dei segni che la pianta dà, soprattutto nella sua morfologia, richiamando la malattia o la forma di certi organi. Ma la cosa più comune è la concezione che una data pianta possa essere utile a riporta-re la persona che se ne serve ad una situazione di “equilibrio” (cioè di benessere), che è stata perduta. Il che porta alla concezione della malattia non più come patologia causata da un agente eziologico ben determinato, ma come squilibrio causato da fattori spesso imponderabili, fra i quali anche fattori di tipo spirituale. L’uso terapeutico delle piante si intreccia quindi in maniera complessa alle concezioni che una popolazione ha dell’uomo, del mondo e del divino, alla sua religione, alla mitologia ed alla sua superstizione, e non è né facile né immediato riuscire a capire tutti i perché.
Di tutte queste considerazioni è perfettamente conscio l’Autore del presente trattato, che intende presentare al Lettore gli usi etnobotanici, e principalmente etnofarmacologici, di un notevole numero di piante mesoamericane, e contemporaneamente ha ritenuto opportuno (cosa, questa, che lascerà qualcuno perplesso, ma che a mio modo di vedere costituirà invece un ottimo termine di paragone, utilissimo per molti Lettori) effettuare anche un paragone con la più nota fitoterapia italiana, evidenziando come la stessa pianta possa essere spesso utilizzata per finalità diverse, e come, viceversa, si possa trattare la stessa patologia con piante diverse.
Ai necessari elenchi l’Autore giustamente premette dei capitoli introduttivi. Inizialmente ci presenta la storia della coltivazione delle piante, a fini didattici, ornamentali e medicinali, nel Vecchio e nel Nuovo Mondo; poi passa a descriverci, non in un breve riassunto, ma in una trattazione ampia e ricca di esempi, la concezione del mondo che hanno i Nahua, uno dei principali popoli mesoamericani, con la loro mitologia e le loro concezioni religiose e filosofiche. Conoscere queste cose, come abbiamo visto, è indispensabile per capire l’approccio di un popolo alla malattia ed alle cure.
Seguono un elenco delle piante utilizzate, in ordine alfabetico di nome comune, cui è comunque aggiunto anche un elenco alfabetico dei nomi latini necessario per la consultazione, ed un ulteriore elenco — l’ultimo capitolo — per patologie, cui sono inframezzati numerosi interessanti approfondimenti su singoli argomenti.
Concludendo, non posso che rilevare come questo testo risponda pienamente all’impostazione scientifica di un’Etnobotanica moderna ed attuale. Ed in considerazione che accanto alla completezza informativa c’è anche, nelle parti più discorsive, una piacevole lettura, non posso che augurare a questo volume quella diffusione e quel successo che giustamente merita.

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